mercoledì 21 agosto 2013

Media e tecnologia per la sopravvivenza della lingue minoritarie. Intervista a Ermenegildo Bidese


Ermenegildo Bidese sarà al convegno LE PAROLE DEL CUORE, Lingue e appartenenza nella letteratura delle Minoranze, che si svolgerà a Obra, in Vallarsa, sabato 31 agosto, all’interno del Festival “Tra le Rocce e il cielo”.

Lei ha dedicato lunga parte della sua carriera accademica allo studio della lingua cimbra e mochena. Come si svolge una ricerca scientifica incentrata su lingue che fino a pochi anni fa rimanevano prevalentemente orali?
Devo innanzitutto fare una breve premessa. Il quadro teorico di riferimento nel quale conduco le mie ricerche è la Grammatica Generativa, fondata ormai 60 anni fa dal linguista americano Noam Chomsky; assieme allo Strutturalismo, la Grammatica Generativa o Generativismo rappresenta la più influente corrente scientifica di studi linguistici del ‘900 e di questo inizio di 21esimo secolo. L’obiettivo principale di questo approccio, per quanto riguarda lo studio di una lingua, è la ricostruzione della competenza interna dei parlanti nativi di una determinata lingua, cioè la formulazione di quelle regole spesso inconsce che li guidano nel comprendere e nel produrre frasi e che istintivamente permettono loro di distinguere tra frasi corrette e frasi sbagliate, anche senza aver seguito alcun corso di linguistica. Ogni parlante dell’italiano istintivamente sa, per esempio, che una frase come “ho lo visto” è sbagliata, indipendentemente dal fatto che si abbia o meno conoscenza delle categorie linguistiche o della grammatica prescrittiva dell’italiano. Per questo motivo ogni lingua, che si tratti di un dialetto regionale senza alcuna tradizione scritta o di una lingua nazionale ufficiale con secoli di scrittura alle spalle, è fondamentalmente interessante e studiabile, in quanto si tratta appunto di costruire una teoria sulla competenza interna dei parlanti di quella lingua. In questo modello di ricerca scientifica, per la raccolta di dati empirici, si usano spesso dei questionari, spesso molto dettagliati,  che vengono somministrati ai parlanti, per vedere quali frasi siano possibili e quali no. Tutto ciò è assolutamente indipendente dalla codificazione scritta che una lingua ha avuto o ha, dal suo prestigio in termini di uso pubblico o ufficiale, dalla grammatiche che sono state scritte per descriverla, ciò è altrettanto indipendente dal numero dei parlanti che una lingua possiede e dal loro grado di istruzione scolastica in quella lingua.

Le strutture grammaticali peculiari di ogni linguaggio tengono traccia di chi parla tale lingua? La lingua e le sue regole, in altre parole, possono fare luce su come viveva e vive tuttora la comunità che la parla?
No, non sono tanto le strutture grammaticali a fare luce sulla condizione sociale dei parlanti e sulla storia della comunità che l’ha parlata o la parla, quanto, eventualmente, la forma del lessico. Dai termini in uso e dallo loro struttura si possono dedurre molte cose. Nel lessico del cimbro di Luserna/Lusérn sono entrati, ad esempio, termini che provenivano dal dialetto trentino e veneto come “glair” (ghiro) o “glutz” (singhiozzo). La forma, come si presentano, con il gruppo consonantico “gl”, oggi non più presente così nei due dialetti suddetti, ci dice che sono entrati nel cimbro in epoca medioevale; si tratta, quindi, di prestiti antichi che ci fanno pensare ad un contatto intenso, di molti secoli fa, tra la comunità cimbra e quella romanza. Lo stesso si dica di altri prestiti lessicali romanzi come “mül” (mulo) o “baül” (baule) con la metafonia sulla “u”, un tempo presente nei dialetti romanzi limitrofi, ma oggi scomparsa. Lo stesso ragionamento ovviamente si può fare anche per il lessico autoctono.

Qual è lo stato attuale della conservazione delle “lingue minoritarie” di cui si è occupato? Che prospettive ci possono essere per il futuro prossimo?
La domanda, a mio avviso, va inserita in un contesto più generale. Secondo il più recente Atlante delle lingue del mondo in pericolo pubblicato nel 2010 dall’UNESCO, si calcola che in Europa ci siano ben 153 tra lingue minoritarie, varietà locali e regionali, ma addirittura anche lingue ufficiali di piccoli stati, come ad esempio il faroese, parlato nelle Isole Fær Øer, in pericolo di estinzione. Basandosi sul criterio della trasmissione intergenerazionale della lingua l’UNESCO ritiene che l’81.05% di esse, cioè 124, siano in condizioni definite o di accertato pericolo (57, cioè il 37.25%) o di grave pericolo (55, cioè il 35.95%) o di pericolo critico (12, cioè il 7.84%). Se questa analisi è corretta se ne ricava che il continente sta correndo filato verso il collasso della sua ricchezza linguistica nel giro della prossima generazione o della generazione successiva al massimo. L’Europa, in realtà, è il continente delle lingue che muoiono! Da questa dinamica non sfuggono, ovviamente, le “lingue minoritarie”, soprattutto quelle di dimensioni così esigue come il cimbro e il mòcheno, che anzi ne sono investite in pieno e, in realtà, travolte, sottoposte come sono ad una fortissima erosione. Secondo alcuni recenti studi presentati all’Università di Yale nel 2008 e a quella di Zurigo nel 2012 a Luserna, a partire dalla metà degli anni ’80 sarebbe iniziato un lento e graduale processo di sostituzione linguistica: dal cimbro all’italiano.
Le prospettive per il prossimo futuro sono, perciò, serie. Vanno aumentati gli sforzi per contrastare la dinamica di cui dicevamo. La direzione verso cui andare è da una parte quella di rafforzare e stabilizzare la trasmissione intergenerazionale della lingua minoritaria attraverso programmi mirati di sostegno linguistico nell’infanzia prescolare e l’introduzione della lingua di minoranza veicolare in nuove tipologie di scuole primarie plurilingui, secondo metodologie già sperimentate nel Nord Europa. Un altro punto importante è rafforzare il senso di comunità all’interno dei comuni di minoranza. La coesione tra gli abitanti di un territorio, tanto più se piccolo e distante dai centri principali, e il loro sentirsi gruppo sono motivazioni sociali importanti per il mantenimento della lingua, che diventa così fattore di appartenenza e di distinzione. Bisognerebbe, inoltre, spingere e mettere a disposizione tutti i mezzi affinché la lingua di minoranza possa essere usata pubblicamente e diventi a tutti gli effetti lingua ufficiale nei comuni di minoranza.


Che valore aggiunto possono dare dei codici linguistici così particolari in un contesto generale in cui si tende sempre più ad usare lingue di interscambio mondiali, come l’inglese, a scapito perfino delle lingue nazionali meno parlate a livello globale?
Ci sono molte ricerche che mettono in evidenza come il plurilinguismo precoce, di qualunque lingua sia, rappresenti un forte e duraturo arricchimento per il bambino e un chiaro vantaggio a molti livelli. In realtà, il monolinguismo, sia esso nazionale o internazionale, è, piuttosto, un deperimento delle capacità tanto cerebrali che mentali. Esso rappresenta anche nella storia un’eccezione, concepita negli stati nazionali europei della modernità, che facevano coincidere le nozioni di stato, popolo e lingua.
Oltre a questi vantaggi cognitivi dati dal plurilinguismo, tuttavia, vorrei dire anche che ognuno di noi non si muove mai solo ad un unico livello di interazione linguistica. C’è senz’altro quello internazionale, che negli ultimi decenni è notevolmente aumentato, ma altrettanto aumentata è l’esigenza di interazione territoriale nell’attiva partecipazione alla costruzione della realtà locale, a molti livelli. In questa prospettiva si inserisce anche il vantaggio dato dalla conoscenza del codice linguistico locale o particolare e dal suo uso attivo. Tanto va aumentata e incentivata la conoscenza di codici di interazione linguistica internazionale, tanto quella dei codici locali.

Linguisticamente e culturalmente, che mondo si immagina nel futuro prossimo? I nuovi mezzi di comunicazione e aggregazione digitale possono offrire nuovi strumenti per la sopravvivenza di lingue e tradizioni locali?
Assolutamente sì. Penso che i nuovi mezzi di comunicazione digitale offrano degli strumenti nuovi non solo di messa a disposizione di contenuti attraverso video e giornali digitali in lingue che altrimenti hanno poco spazio nei mezzi di comunicazione tradizionali, ma anche di “tools” per l’insegnamento e la trasmissione della lingua stessa. In un interessante articolo del 18 febbraio 2012, ancora reperibile sul sito della BBC (http://www.bbc.co.uk/news/science-environment-17081573) il giornalista scientifico Jonathan Amos spiega come alcuni scienziati siano convinti che i social networks, gli I-phones e molte applicazioni digitali stiano rivoluzionando la comunicazione all’interno di molte comunità di minoranza, le cui lingue erano praticamente moribonde. E porta alcuni esempi: gli indiani del Nord-America usano, ad esempio, in modo massiccio le reti sociali per motivare i giovani all'apprendimento e all'uso della lingua nativa. I Tuva, un popolo nomade tra la Siberia e la Mongolia usano un'applicazione di I-phone per insegnare correttamente la pronuncia della loro lingua. I pochissimi parlanti del Siletz Dee-ni, una lingua nativa in uso in un'area molto ristretta dell'Oregon, classificata dai linguisti come moribonda, hanno ricominciato ad insegnare la lingua a giovani e interessati attraverso un dizionario online che raccoglie più di 14.000 parole. I tre esempi citati sono solo alcuni. Tutti sono d'accordo nel sottolineare che la lingua si salva parlandola sempre e ovunque nel rapporto interpersonale, ma questi "tools" possono aiutare molto, tanto che lingue ormai sulla soglia dell’estinzione hanno riacquistato forza e parlanti di ritorno. Si tenga presente che le vendite di I-phones hanno ormai superato quelle dei PC. Purtroppo da noi non sono a conoscenza di esempi di questo tipo, ma è senz’altro una direzione verso cui andare.

Riccardo Rella
rella_riccardo@yahoo.it

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