martedì 17 agosto 2010

ALBERTO MONTANARI SULLA "VIA DEL DRAGO"

Riceviamo questo pezzo da Alberto Montanari, che parteciperà sabato pomeriggio all'evento Barbier. Contiene interessanti riflessioni sulla figura del grande alpinista, precursore del free climbing.

Quando mi è stato chiesto di scrivere i miei pensieri su Claudio Barbier mi sono chiesto “perchè?”. Per quale motivo i miei pensieri dovrebbero interessare? Io sono solo un appassionato di montagna, neppure troppo audace. Arrampico sul quarto grado con un po' di quinto, le vie di Armando Aste sono per me solo sogni, e tali resteranno. Certo, la mia passione mi porta a leggere tanti libri di montagna, tante guide di arrampicata, ma da qui a formare un parere autorevole ce ne passa. Pensa che ti ripensa, ho concluso che io sono proprio un arrampicatore come tanti e che, forse, solo questo posso scrivere: le impressioni che Claudio Barbier ha suscitato in un uno come tanti.

Eppure, devo dire che per me Claudio Barbier è stato un'ispirazione molto importante. Sarà perchè anche a me ogni tanto piaceva andare solo, ma questo grandissimo solitario mi ha affascinato subito. Quando poi ho letto quel capolavoro che credo sia “La Via del Drago” mi si è aperto un mondo su questa persona, tanto che adesso mi sembra quasi di averlo conosciuto personalmente (mentre in realtà ho iniziato ad arrampicare 10 anni dopo la sua scomparsa). Credo che Claudio Barbier abbia lasciato un segno importante dal punto di vista tecnico. Il suo aspetto di distinzione sono state le grandi solitarie sulle grandi pareti. Il concatenamento in solitaria delle cinque Nord di Lavaredo nel 1961 è stata un'impresa di altissimo spessore, per di più in anticipo sui tempi.

Al di là, però, dell'aspetto tecnico, io credo che la grandezza di Barbier sia soprattutto legata al suo “io”, che adesso conosciamo grazie a “La Via del Drago”. Credo che un carattere comune agli alpinisti della fine anni sessanta e anni settanta sia la loro “trasparenza”, ovvero la loro frequente disponibilità a manifestare le proprie motivazioni, i propri pensieri ed i propri dubbi. Questo non accadeva altrettanto frequentemente prima di allora. Degli alpinisti precedenti conosciamo ogni dettaglio delle loro imprese, conosciamo gli aspetti tecnici, ma non conosciamo bene i loro pensieri, le loro paure, i loro interrogativi. A partire dalla fine degli anni sessanta, invece, gli alpinisti perdono il timore di rivelare il proprio io. E noi, soprattutto le persone comuni come me, li vediamo più vicini, più simili a noi.

Ecco, io ho provato questo leggendo “La Via del Drago”: ho sentito Barbier vicino a me, ho potuto confrontare le sue paure e le sue ansie con le mie. Penso che Barbier fosse una persona normale, che viveva l'alpinismo ponendosi gli importanti interrogativi che anche l'alpinista dilettante si pone, talvolta vivendo grandi contraddizioni interne. Tuttavia, grazie al suo impegno, grazie ad una buona dose di grinta ed anche grazie alla sua condizione agiata è riuscito e lasciare un segno indelebile sulle montagne e, soprattutto, sugli arrampicatori. Io credo che ciò sia fondamentale per capire il personaggio Claudio Barbier: concentrare l'attenzione sul suo messaggio umano, piuttosto che sul segno lasciato sulle montagne.

Dopo aver letto il libro “La Via del Drago” ho maturato il desiderio di ripetere la vera Via del Drago. Era un desiderio circondato da timore, perchè le difficoltà sono un po' troppo alte per me. Dopo un primo tentativo naufragato a pochi metri da terra, io e il mio socio siamo tornati nell'agosto del 1998. Il giorno prima aveva fatto un forte temporale, la parete era fredda ed eravamo soli. Che giornata, che ammirazione per lo spirito di chi aveva pensato di salire per di li'. Quando fummo nel bel mezzo del traverso un escursionista dal basso ci chiese quale via stavamo ripetendo. Il mio compagno urlò fortissimo, nonostante non ce ne fosse bisogno perchè le montagne erano deserte: “Via del Drago!”. In quel momento mi sono sentito vicinissimo a Claudio Barbier.

Alberto Montanari

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